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STORIE IN BIANCONERO - LA BEIGA BIANCONERA TRA LEGGENDA E REALTÀ

L’ideatore fu “Carlin” Bergoglio, lontano parente del Santo Padre. Dalle colonne del Guerin Sportivo nel 1928 inventò le “animalie”, ovverossia simboli più o meno di fantasia che dovevano identificare le squadre dell’allora serie A. Il diavolo per il Milan, la zebra per la Juventus, il grifone per il Genoa, ma anche Balanzone per il Bologna e il leone di S. Marco per il Venezia. Territorialità e umorismo, la volontà di associare ad un club una caratteristica facile, che colpisse la fantasia del pubblico giovane, facendo sorridere e prestandosi all’esaltazione. L’Italia uscita dalla guerra aveva bisogno di campanili, di occasioni per scaricare nello sport gli impulsi repressi, anche tramite la rivalsa contro i rivali della porta accanto e la curiosa icona che arricchiva la bandiera si prestava ad ironiche interpretazioni da parte degli avversari….

1928: compare l’araldica nel calcio italiano. Anche la Lavagnese ebbe qualche anno dopo il suo simbolo.

Il Tigullio non restò immune dalla nuova moda e se i giocatori dell’Entella, del Sestri Levante e del Riva Trigoso assunsero il soprannome di “diavoli neri”, di “corsari” e di “calafati”, i lavagnesi vennero identificati come quelli della “beiga”, parola dialettale traducibile con bruco (per taluni anche verme). Il motivo si perde nei tempi, ma è probabile si originasse dall’alacre attività dei contadini che coltivavano soprattutto nella piana dell’Entella, nell’attuale Corso Genova e lungo il sestiere del Ripamare che porta a Cavi tutta una serie di ottimi ortaggi (cavoli, piselli, fagiolini, pomodori, etc.) che venivano poi “esportati” in massa con i carretti a mano nei mercati delle città vicine. Non è un mistero ad esempio che la Piazza Mazzini di Chiavari venne ribattezzata “a ciassa di cöi” e che i cavoli lavagnini venissero apprezzati per il particolare sapore, ma riconosciuti anche per la presenza dei piccoli ospiti gialli sulle foglie. Prodotti ottimi insomma, ma con un punto debole che ne caratterizzava l’estetica sul banco: diventò così naturale per gli sportivi e non delle città vicine attribuire una “beiga” nella testa dei lavagnesi tutte le volte che essi non centravano l’impresa o andavano controcorrente.

Vero o falso che fosse, appena finì la seconda guerra mondiale la rifondata Lavagnese ne fece il simbolo delle proprie battaglie, inaugurando cartelloni pubblicitari, calendari e vignette con protagonista il bruco bianconero. L’iniziativa contribuì ad identificare nel panorama nazionale la società, giunta in serie C, e soprattutto ad alimentare gli argomenti di sfottò nei derbies con Entella, Sestri Levante, Rapallo, disputati davanti ai gremiti spalti di uno stadio finalmente libero dall’occupazione dei tanks americani.

Lavagnese - Savona 23 Aprile 2017 - Luca Tabbiani Allenatore
Natale 1945: la Beiga bianconera con “e scarpe da balùn” nelle vignette.
4 maggio 1947: l’U.S. Lavagnese e Lavagna identificate sulla stampa locale come “Beiga”
e naturalmente ossatura della squadra imperniata su elementi autoctoni (sotto, “Nanni” Raffo, Francesco Rebora ed Aldo Zucchero in piedi e “Lello” Gatti accosciato).

Gli anni successivi avrebbero smorzato l’associazione del bruco ai colori dell’Unione, che non applicò mai nel proprio stemma ufficiale nulla che riconducesse alle sue fattezze, a differenza ad esempio di ciò che fece il Cesena con il cavalluccio marino già nel 1949-50. Anche se negli ultimi decenni la percentuale di giocatori originari della “Beiga” titolari si è via via ridotta, la tradizione popolare e lo spirito antico del club si sono perpetrate fino ai giorni nostri e bene hanno fatto i giovani tifosi dell’Unione a rispolverare il vecchio animaletto sugli striscioni.


2023: il ritorno della Beiga sui vessilli bianconeri.

D’altronde, come suggerisce il poeta dialettale Gianni Raffo, rammentarlo è un modo per mantenere viva la storia di Lavagna e capire le origini di chi la abita: “Se i dixian che t’æ a beiga nu fa in-a guera, a vegnìa ai cuntadìn louando a tera…”  (si ringraziano per la collaborazione Giovanni Berisso, Gianni Dasso e Stefano Sambuceti)


Articolo, interviste e foto a cura di Gianluigi Raffo

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